Tentativo di poesia
13:24
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13:24 Unknown 0 Comments
Mi sono
lasciata cadere
Con il
timore di chi si muove nel buio
E la
curiosità di chi, nel buio, vede nuovi colori,
E nel vedere
ho scoperto
il sogno di un mare iridescente
che mi
abitava vivo dentro.
Mi sono
stretta in un brivido di commozione
E subito ho
dovuto aggrapparmi all’ emozione
-Che
conosciuto un tempo il senso della fine-
già temevo
in lontananza
Un’ emozione
dentro cui stringersi
e silenziosamente
Tra ventre e
cuore.
Affogare
Ma è nei
colori di quell’acqua viva
Che ho
scelto
Di Non
lasciare
A timori
antichi
la
decisione di un naufragio
Allora, decidendo di nuotare, ho visto che a muovermi era amore.
06:09
Unknown
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06:09 Unknown 0 Comments
Tornando indietro ad un pomeriggio di fine aprile
Su un tramonto di fine
aprile si libera di fronte a me Pont Neuf. Ho appena vent’anni, ma a
guardare la città colpita dall’arancione del cielo gonfio di nuvole, quasi
violento nella sua bellezza, mi sembra di potere capire la stanchezza delle sue
imponenti mura. Neanche avessi cent’anni.
Cerco di ascoltare Valentine che accanto a me parla della metro di Parigi. “Parigi è animalesca”, mi dice, “e la metro è senza dubbio il luogo più selvaggio della città . Turisti stanchi con capelli unti e lo sguardo assente, clochards come spiriti volanti della foresta, zingari che si avvicinano con lo sguardo di predatori affamati e maliziosi, e già assaporano la loro preda; enormi donne dalla pelle nerissima, tanto truccate da sembrare le grottesche maschere africane della loro terra”.
Valentine parla divertita ed eccitata: “mio zio mi diceva sempre che quando prendeva il treno per Torino, negli anni Sessanta, c’era un forte odore di miseria e umanità . Adesso l’ho capito. Perché riesco a sentire anche io quell’odore: sa di umido e di muschiato, ma soprattutto ti entra nel naso l’essenza pungente di quell’ammasso di persone, che hanno attaccati ai vestiti gli odori della propria cultura, della propria casa. Una casa che a volte è fatta di pareti, a volte solo di pezzi di cartone”.
É soddisfatta Valentine, sta vivendo.
Parigi selvaggia negli occhi di Valentine. Parigi antica nei miei.
Mi allontano dal bordo del ponte a cui siamo appoggiati. Cammino ascoltando le travi di legno scricchiolare sotto i miei piedi. Mi siedo su una delle panchine in mezzo al ponte, una nuova folata di vento mi irrigidisce e mi stringo dentro me stesso, nella mia giacca troppo leggera.
Non è un ragazzo di vent’anni, ma un bambino quello seduto sulla panchina, con la schiena e la testa incurvate verso il basso, a guardarsi la punta dei piedi che dondolano avanti e indietro, cercando di combattere l’aria che soffia.
Valentine mi guarda, proprio come una madre guarderebbe un bambino, e si siede con me. Ci scambiamo un sorriso poco convincente, e io torno con lo sguardo su Pont Neuf.
“Ho scoperto che nonostante il nome, “Ponte Nuovo”, è il ponte più antico della città ”, le dico. Valentine, mi prende già in giro, senza nemmeno farmi finire “e tu sei proprio come lui, vero? Sei un’anima millenaria nel corpo di un ventenne”.
Non rispondo, e mi lascio andare distratto con i pensieri verso il cielo. Il cielo di Parigi che si mostrava a me in tutta la sua immensità , era forse l’unica cosa capace di distendere la matassa ingarbugliata di pensieri nel mio stomaco. Tutto si districava dentro me, nel contemplare la solennità di quell’orizzonte, segnato solo dalle scie degli aerei.
E poi Valentine, così vera accanto a me. Ancora parla, ma io già sento che sto iniziando ad allontanarmi. Cerco di rimanere in quel momento, sul Pont des Art. Allora mi aggrappo con gli occhi ai dettagli del suo corpo. Mi soffermo sulle curve dei suoi riccioli scomposti, seguo con attenzione le sue grandi mani che gesticolano vivaci. Osservo il fango sulla punta degli stivali consumati. Metto a fuoco i nei che le contornano la bocca, e i grumi di mascara sulla punta delle ciglia.
Lei e lì, è vera.
La sua felicità di essere a Parigi si interrompe solo in momenti come quello, in cui si rende conto che io comincio a non esserci, e che non può fare nulla per tenermi con lei.
Dove sono?
Mi sento sparso in infinite particelle d’aria. Sono dissolto nel vento che accarezza i muri della città . Sono ovunque, eppure non riesco a stare lì con lei, per assaporare –semplicemente una volta tanto, per favore - quel pomeriggio insieme.
Vorrei parlare, ma non lo faccio perchè mi imbarazza la mia malinconia da quattro soldi, e già so che per non sentire, mi prenderebbe di nuovo in giro.
Vorrei dirle che io e la realtà siamo come le due sponde opposte del fiume, con l’acqua della Senna che ci permette di guardarci, ammirarci. Ma scorrendo, ci separa.
Dovrei forse imparare a essere quella stessa acqua.
Cerco di ascoltare Valentine che accanto a me parla della metro di Parigi. “Parigi è animalesca”, mi dice, “e la metro è senza dubbio il luogo più selvaggio della città . Turisti stanchi con capelli unti e lo sguardo assente, clochards come spiriti volanti della foresta, zingari che si avvicinano con lo sguardo di predatori affamati e maliziosi, e già assaporano la loro preda; enormi donne dalla pelle nerissima, tanto truccate da sembrare le grottesche maschere africane della loro terra”.
Valentine parla divertita ed eccitata: “mio zio mi diceva sempre che quando prendeva il treno per Torino, negli anni Sessanta, c’era un forte odore di miseria e umanità . Adesso l’ho capito. Perché riesco a sentire anche io quell’odore: sa di umido e di muschiato, ma soprattutto ti entra nel naso l’essenza pungente di quell’ammasso di persone, che hanno attaccati ai vestiti gli odori della propria cultura, della propria casa. Una casa che a volte è fatta di pareti, a volte solo di pezzi di cartone”.
É soddisfatta Valentine, sta vivendo.
Parigi selvaggia negli occhi di Valentine. Parigi antica nei miei.
Mi allontano dal bordo del ponte a cui siamo appoggiati. Cammino ascoltando le travi di legno scricchiolare sotto i miei piedi. Mi siedo su una delle panchine in mezzo al ponte, una nuova folata di vento mi irrigidisce e mi stringo dentro me stesso, nella mia giacca troppo leggera.
Non è un ragazzo di vent’anni, ma un bambino quello seduto sulla panchina, con la schiena e la testa incurvate verso il basso, a guardarsi la punta dei piedi che dondolano avanti e indietro, cercando di combattere l’aria che soffia.
Valentine mi guarda, proprio come una madre guarderebbe un bambino, e si siede con me. Ci scambiamo un sorriso poco convincente, e io torno con lo sguardo su Pont Neuf.
“Ho scoperto che nonostante il nome, “Ponte Nuovo”, è il ponte più antico della città ”, le dico. Valentine, mi prende già in giro, senza nemmeno farmi finire “e tu sei proprio come lui, vero? Sei un’anima millenaria nel corpo di un ventenne”.
Non rispondo, e mi lascio andare distratto con i pensieri verso il cielo. Il cielo di Parigi che si mostrava a me in tutta la sua immensità , era forse l’unica cosa capace di distendere la matassa ingarbugliata di pensieri nel mio stomaco. Tutto si districava dentro me, nel contemplare la solennità di quell’orizzonte, segnato solo dalle scie degli aerei.
E poi Valentine, così vera accanto a me. Ancora parla, ma io già sento che sto iniziando ad allontanarmi. Cerco di rimanere in quel momento, sul Pont des Art. Allora mi aggrappo con gli occhi ai dettagli del suo corpo. Mi soffermo sulle curve dei suoi riccioli scomposti, seguo con attenzione le sue grandi mani che gesticolano vivaci. Osservo il fango sulla punta degli stivali consumati. Metto a fuoco i nei che le contornano la bocca, e i grumi di mascara sulla punta delle ciglia.
Lei e lì, è vera.
La sua felicità di essere a Parigi si interrompe solo in momenti come quello, in cui si rende conto che io comincio a non esserci, e che non può fare nulla per tenermi con lei.
Dove sono?
Mi sento sparso in infinite particelle d’aria. Sono dissolto nel vento che accarezza i muri della città . Sono ovunque, eppure non riesco a stare lì con lei, per assaporare –semplicemente una volta tanto, per favore - quel pomeriggio insieme.
Vorrei parlare, ma non lo faccio perchè mi imbarazza la mia malinconia da quattro soldi, e già so che per non sentire, mi prenderebbe di nuovo in giro.
Vorrei dirle che io e la realtà siamo come le due sponde opposte del fiume, con l’acqua della Senna che ci permette di guardarci, ammirarci. Ma scorrendo, ci separa.
Dovrei forse imparare a essere quella stessa acqua.
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Questo blog, la mia Terra
A me le parole affascinano molto. E ho un grande bisogno di portare fuori da me i pensieri che mi circolano nella mente.
Queste due sono le cause che mi ha portato ad avere una moltitudine di frasi accumulate, a prendere polvere, e poi ad essere dimenticate. Ed un'altra moltitudine scritta su fogli andati persi....quindi, in ogni caso, altre frasi dimenticate.
Io ho una piccola ossessione però (oltre a quella per le parole).
Che è proprio la paura di dimenticare: vivere esperienze, trarne insegnamenti, commettere errori, fino ad arrivare a comprendere dove si trova l'inghippo.......e poi, lentamente, dimenticare.
Ma come diceva una canzone "preserve your memories they're all that's left you".
La mente umana pecca di dimenticanza, ma ciò non toglie che abbiamo la possibilità di preservare la nostra storia, e le lezioni che ne abbiamo tratto (non molto tucidideo il mio metodo di raccogliere storia).
Questo blog è il mio modo di preservare la mia storia, per avere sempre sotto gli occhi ciò che ritengo non debba cadere nel mio oblio....affinché possa smettere di girare in tondo come una trottola, attorno agli stessi errori.
E affinché magari, qualche passante, passando in questo spazio di internet desolato e sconosciuto, possa forse trovare qualcosa di utile per se, o quantomeno minimamente interessante o,...non so.
Insomma, ecco qui la Terra a cui ancoro il mio Esprit Libre du Vent - Spirito Libero di Vento.
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