scorcio su Simona

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La Storia dentro le parole, la struttura urbana e le pratiche sociali

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Ho un interesse preciso, di cui mi sto rendendo conto grazie ad un esame che sto preparando per l'università, un esame di Geografia dell'Asia Orientale.

Mi piace molto vedere la correlazione che c'è tra la struttura fisica di una società, e lo spirito, il carattere della cultura che l'ha determinata.

I paesi italiani seguono più o meno tutti uno stesso schema: una piazza centrale, dove si trova anche la chiesa. E' il luogo di ritrovo, della socialità sin dai tempi più antichi. 
La presenza dell'acqua determina l'incontro sociale. Attorno ad una fontana le donne lavavano gli abiti e si scambiavano discorsi.

Questo non accade allo stesso modo dappertutto; studiando per questo esame, ad esempio, ho capito che le città europee, sono costruite in maniera molto più "solida" rispetto a quelle giapponesi.
Un monaco e poeta giapponese, Kamo no Chomei (1155-1216), paragona l'immagine dell'acqua che scorre, al modo in cui le abitazioni sono destinate a crollare e sparire.

Perchè il Giappone è un luogo soggetto a terremoti e catastrofi naturali di vario tipo.
Questo ha determinato una sorta di coscienza, evidentemente, ed una sorta di stato di accettazione, il quale ha portato questo popolo a considerare le catastrofi naturali, come una possibilità di purificazione dal vecchio, ed una possibilità di rinascita.

Questo concetto trova espressione nelle parole "fukko", ricostruzione dopo un disastro; o "shikinensengu" : ricostruzione associata a un ciclo volontario di distruzione.

Trovo tutto ciò molto interessante.
La maniera in cui un luogo e un popolo si determinano vicendevolmente.

Ma tutto ciò non lo vediamo solo nella strutturazione urbana. Ma anche nel modo in cui l'amministrazione di uno stato prende forma. 
E questo a sua volta influenzerà indirettamente le pratiche sociali di un popolo.

In Cina molte persone sono costrette a vivere all'interno di palazzi anonimi, che hanno letteralmente raso al suolo quartieri impregnati di tradizione.
Lo stato ha sradicato la vita  delle persone che vi vivevano, e la trapianta dentro alte torri.
Questo cambia le pratiche sociali di queste persone. Ma è interessante notare come loro cerchino comunque di mantenere vive, certamente in maniera diversa, le loro abitudini. Quindi, se entrassimo in uno di questi palazzi, vedremmo che la strada del quartiere è riprodotta nei corridoi: le porte rimangono aperte, così che i propri bambini possano giocare con quelli dei vicini; vediamo stand di ristorazione e di parrucchieri.

La storia è viva, è attaccata ai palazzi, alle vie, è nascosta dietro ogni aspetto del sociale.



Essa non si può comprendere ed apprezzare leggendo dei manuali. Ma avendo la curiosità di guardarsi intorno e poi di proiettare il nostro sguardo lontano, e infine nel mettere a confronto ciò che si è visto.

Anche le nostre parole hanno una storia, e ogni parola racchiude un mondo intero.

C'è una parola tedesca, non ricordo più quale, che esprime il senso di paura che il popolo aveva quando la porta del castello si chiudeva, quando il ponte levatoio veniva tirato su, perchè voleva dire che stavano arrivando i nemici.
Quella parola è una storia, ed è la storia personale di quel particolare luogo e della sua gente.

La storia non è un'astrazione di date, di trattati firmati, di guerre vinte.
La storia esiste. E' palpabile, tangibile. 
Ogni atto umano è espressione della storia che vi è dietro.
E in ogni nostro gesto incrementiamo un flusso costante di coodeterminazione.

La bellezza della storia sta in questo costante coodeterminarsi, su diversi livelli del reale.

E cercare di comprendere il senso delle cose che ci circondano, è una possibilità, uno sguardo, uno scorcio sulla storia.

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14:18 Unknown 0 Comments


In viaggio attraverso le persone
 (Bianco e Nero)


 






















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Tentativo di poesia

13:24 Unknown 0 Comments

Mi sono lasciata cadere
Con il timore di chi si muove nel buio
E la curiosità di chi, nel buio, vede nuovi colori,
E nel vedere
ho scoperto il sogno di un mare iridescente
che mi abitava vivo dentro.

Mi sono stretta in un brivido di commozione

E subito ho dovuto aggrapparmi all’ emozione
-Che conosciuto un tempo il senso della fine-
già temevo in lontananza

Un’ emozione dentro cui stringersi
e silenziosamente
Tra ventre e cuore.
Affogare

Ma è nei colori di quell’acqua viva
Che ho scelto
Di Non lasciare
A timori antichi 
la decisione di un naufragio
Allora, decidendo di nuotare, ho visto che a muovermi era amore.

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Architetturaumana

06:57 Unknown 0 Comments









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06:09 Unknown 0 Comments

Tornando indietro ad un pomeriggio di fine aprile




Su un tramonto di fine aprile si libera di fronte a me Pont Neuf.  Ho appena vent’anni, ma a guardare la città colpita dall’arancione del cielo gonfio di nuvole, quasi violento nella sua bellezza, mi sembra di potere capire la stanchezza delle sue imponenti mura. Neanche avessi cent’anni.
Cerco di ascoltare Valentine che accanto a me parla della metro di Parigi. “Parigi è animalesca”, mi dice, “e  la metro è senza dubbio il luogo più selvaggio della città. Turisti stanchi con capelli unti e lo sguardo assente, clochards come spiriti volanti della foresta, zingari che si avvicinano con lo sguardo di predatori affamati e maliziosi, e già assaporano la loro preda; enormi donne dalla pelle nerissima, tanto truccate da sembrare le  grottesche maschere africane della loro terra”.
Valentine parla divertita ed eccitata: “mio zio mi diceva sempre che quando prendeva il treno per Torino, negli anni Sessanta, c’era un forte odore di miseria e umanità. Adesso l’ho capito. Perché riesco a sentire anche io quell’odore:  sa di umido e di muschiato, ma soprattutto ti entra nel naso l’essenza pungente di quell’ammasso di persone, che hanno attaccati ai vestiti gli odori della propria cultura, della propria casa. Una casa che a volte è fatta di pareti, a volte solo di pezzi di cartone”.
É soddisfatta Valentine, sta vivendo.
Parigi selvaggia negli occhi di Valentine. Parigi antica nei miei.
Mi allontano dal bordo del ponte a cui siamo appoggiati. Cammino ascoltando le travi di legno scricchiolare sotto i miei piedi. Mi siedo su una delle panchine in mezzo al ponte, una nuova folata di vento mi irrigidisce e mi stringo dentro me stesso, nella mia giacca troppo leggera.
Non è un ragazzo di vent’anni, ma un bambino quello seduto sulla panchina,  con la schiena e la testa incurvate verso il basso, a guardarsi la punta dei piedi che dondolano avanti e indietro, cercando di combattere l’aria che soffia.
Valentine mi guarda, proprio come una madre guarderebbe un bambino, e si siede con me. Ci scambiamo un sorriso poco convincente, e io torno con lo sguardo su Pont Neuf.
“Ho scoperto che nonostante il nome, “Ponte Nuovo”, è il ponte più antico della città”, le dico. Valentine, mi prende già in giro, senza nemmeno farmi finire “e tu sei proprio come lui, vero? Sei  un’anima millenaria nel corpo di un ventenne”.
Non rispondo, e mi lascio andare distratto con i pensieri verso il cielo. Il cielo di Parigi che si mostrava a me in tutta la sua immensità, era forse l’unica cosa capace di distendere la matassa ingarbugliata di pensieri nel mio stomaco. Tutto si districava dentro me, nel contemplare la solennità di quell’orizzonte, segnato solo dalle scie degli aerei.
E poi Valentine, così vera accanto a me. Ancora parla, ma io già sento che sto iniziando ad allontanarmi. Cerco di rimanere in quel momento, sul Pont des Art. Allora mi aggrappo con gli occhi ai dettagli del suo corpo. Mi soffermo sulle curve dei suoi riccioli scomposti, seguo con attenzione le sue grandi mani che gesticolano vivaci. Osservo  il fango sulla punta degli stivali consumati. Metto a fuoco i nei che le contornano la bocca, e i grumi di mascara sulla punta delle ciglia.
Lei e lì, è vera.
La sua felicità di essere a Parigi si interrompe solo in momenti come quello, in cui si rende conto che io comincio a non esserci, e che non può fare nulla per tenermi con lei.
Dove sono?
Mi sento sparso in infinite particelle d’aria. Sono dissolto nel vento che accarezza i muri della città. Sono ovunque, eppure non riesco a stare lì con lei, per assaporare –semplicemente una volta tanto, per favore - quel pomeriggio insieme.
Vorrei parlare, ma non lo faccio perchè mi imbarazza la mia malinconia da quattro soldi, e già so che per non sentire, mi prenderebbe di nuovo in giro.
Vorrei dirle che io e la realtà siamo come le due sponde opposte del fiume, con l’acqua della Senna che ci permette di guardarci, ammirarci. Ma scorrendo, ci separa.
Dovrei forse imparare a essere quella stessa acqua.


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